Mag 2019


‘Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude’.
A 200 anni dalla sua composizione, ‘L’infinito’, una delle liriche più importanti della letteratura italiana, mostra quanto la scienza sia presente nei versi di Giacomo Leopardi. “Certo, la prima cosa è la bellezza della poesia; poi, però, il fisico che come me si occupa di luce e visione coglie altri aspetti”, afferma Alessandro Farini, ricercatore dell’Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ino). “Ad esempio è assai interessante che una poesia intitolata ‘L’infinito’ parli di una siepe che esclude lo sguardo. Questo è evidente nella visione umana: l’occhio umano ha bisogno di punti di riferimento; potremmo dire che la nostra mente può cogliere l’infinito solo se c’è qualcosa di finito che offre un punto di confronto.
‘Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare’.
Leopardi sente, vive profondamente lo stupore umano di fronte all’immensità, la sente nell’intimo e non riesce a spiegarsela, come in un mare in cui naufragar. “Proprio questo stupore e questa scintilla poetica, sono il punto di partenza della ricerca della conoscenza e della scienza”, prosegue il ricercatore. “E’ facile infatti che il cuore si spauri pensando alle dimensioni eccezionali del nostro universo, alla capacità di raccogliere segnali provenienti da distanze incredibili, alla possibilità di esistenza di altri esseri nell’universo, al tempo non più assoluto. Non so se potrei definire dolce il naufragare in questo mare della conoscenza, ma certo il fisico ne prova il fascino incredibile. E quel mistero è la ragione per cui lavoriamo tutti i giorni”.

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